Aggiornamento di stato
12 dicembre 2018
Seconda catechesi che Don Massimo Musso ha tenuto lunedì 10 dicembre in cripta:
Il vissuto cristiano del Natale
Inizio dicendo che non tutto dirò e, soprattutto, non tutto sono in grado di dire sul mistero del Natale di Gesù e sui suoi “effetti collaterali” sul nostro vissuto cristiano o, come si usa dire comunemente, “spiritualità” cristiana. Dante lo ricorda:
“Matto è chi spera che nostra ragione possa trascorrer la infinita via che tiene una sustanza in tre persone.
State contenti, umana gente, al quia; ché, se potuto aveste veder tutto, mestier non era parturir Maria” (Purgatorio 3,34-39).
Del resto: “Non si è nelle condizioni di dominare il tutto; è invece alla nostra portata prendersi cura delle parti” .
1. Cenni storici. Mentre in tutta la Chiesa d’Oriente e in parte d’Occidente nel IV secolo si celebra l’Epifania del Signore il 6 gennaio, a Roma incontriamo verso la metà di questo secolo una novità: la festa del 25 dicembre in onore della nascita ( = natale) di Cristo secondo la carne (questa è l’antica dicitura della festa) .
È un calendario liturgico della Chiesa di Roma, il Cronografo Romano, composto nel 354 da Furio Dionisio Filocalo che ci informa, per la prima volta, della celebrazione del Natale.
La domanda che gli storici si sono posta è la seguente: per quale motivo la data della nascita di Gesù a Betlemme viene celebrata dalla Chiesa di Roma il 25 dicembre? I Vangeli secondo Matteo e secondo Luca, gli unici due tra i Vangeli canonici che ci raccontano la nascita di Cristo, tacciano. Non ci dicono in quale giorno Gesù nacque. I Vangeli infatti non vogliono essere una biografia dettagliata di Gesù, ma l’annuncio del kerygma ( = della sua risurrezione dalla morte di croce) radicato però nella storia, nei giorni e nelle opere di Gesù. La data del 25 dicembre venne scelta, quasi certamente, per cristianizzare la festa pagana del solstizio d’inverno, la festa del sol invictus, del sole che risorge invitto dopo il solstizio d’inverno. È Cristo il vero “sole che sorge dall’alto” (cf. Lc 1,78). Oggi si assiste al processo inverso: alla paganizzazione del Natale, dove si festeggia tutto tranne il Festeggiato ( = Gesù).
Secondo alcuni recenti studi, forse non sarebbe del tutto inventata la collocazione della nascita di Gesù a dicembre. Sappiamo infatti che Zaccaria era della classe sacerdotale di Abia (cf. Lc 1,5). Questa, a quanto pare, faceva servizio nel Tempio di Gerusalemme durante il mese di settembre. L’annuncio a Maria viene collocato sei mesi dopo quello fatto a Zaccaria. Se quest’ultimo avvenne a settembre, l’annuncio della nascita di Gesù avvenne a marzo e il suo Natale di conseguenza nove mesi dopo, ossia a Dicembre. Comunque, questa rimane solo un’ipotesi.
I Padri della Chiesa svilupparono, in occasione del Natale, una teologia della luce che è Cristo. L’autorità della Chiesa di Roma e la necessità di affermare e illustrare il dogma della divino-umanità del Cristo, hanno contribuito molto ad estendere questa festa della Natività anche in Oriente. Tra i Padri della Chiesa, è soprattutto il papa san Leone Magno ( + 460) – lo vedremo in seguito – ad aver approfondito ed elaborato una vera e propria teologia del Natale.
Nel VI secolo, a Roma, la festa del Natale si arricchisce di una celebrazione notturna presso la basilica di Santa Maria Maggiore . Questa celebrazione notturna significa che il Natale viene celebrato con pari solennità della Pasqua, tanto da essere preceduta come quest’ultima, da una veglia notturna.
Nel medioevo, la festa del Natale si arricchisce del cosiddetto “presepe”. San Francesco d’Assisi (+ 1226), nel Natale del 1223, rappresenta dal vivo i personaggi del presepe durante la messa di mezzanotte a Greccio. I cultori della storia della liturgia affermano che, in questo caso, la mimesis dei gesti vuole essere un aiuto alla anamnesis del sacramento .
2. Riflessione sul vissuto cristiano ( = spiritualità) del Natale: nella teologia di ieri e di oggi.
a) Il vissuto cristiano del Natale nella teologia di sant’Agostino e san Leone Magno. Sant’Agostino scrive in una lettera: “Conviene che tu sappia che il giorno della nascita del Signore non si celebra come un sacramento, ma che si ricorda come una memoria” . Perché questa risposta? Perché per Agostino solo la celebrazione pasquale è sacramentale, in quanto la Pasqua è, grazie alla resurrezione di Gesù (ossia grazie al suo essere nell’eternità di Dio) un mistero sempre presente in tutti i tempi. Leone Magno riesce ad uscire da questa impasse sostenendo che anche il Natale è mistero, sacramento; non indipendentemente dalla Pasqua ma come suo inizio. L’incarnazione è non solo il presupposto necessario alla Pasqua, ma il suo inizio. Del resto, anche i Vangeli nascono a partire dal racconto del mistero pasquale, nella sua duplice valenza di morte e resurrezione, per estendersi, man mano, all’intera esistenza di Gesù.
Inoltre, secondo papa Leone, i “misteri” di Cristo e la loro attualizzazione liturgica non sono solamente sacramentum ma anche exemplum. Il che equivale a dire che non si limitano a rendere presenti le azioni di Cristo, bensì contengono in sé anche degli insegnamenti morali, degli esempi di vita da imitare. Nel caso specifico della celebrazione dei misteri del Natale e dell’Epifania del Signore, il cristiano è chiamato a vivere l’infanzia spirituale, la quale consiste nell’imitare l’infanzia di Cristo e le virtù che la contraddistinguono: l’umiltà, la mansuetudine e l’abbandono fiducioso in Dio. L’infanzia di Gesù poi non è limitata entro i primi anni della sua vita terrena, ma vi è anche, secondo il papa Leone, una “infanzia dell’anima” di Gesù che perdura sempre, la quale comporta una serie di virtù, anzitutto quella dell’umiltà. Questa infanzia è da imitare. Leone unisce il racconto evangelico dell’infanzia di Cristo con l’appello a ritornare bambini, proprio imitando l’infanzia del Verbo incarnato. Ecco uno stralcio di una sua omelia:
Se, dunque, l’onnipotente Dio con la prerogativa dell’umiltà ha reso buona la nostra causa, fin qui troppo cattiva; e ha distrutto la morte e l’autore della morte, non rifiutando di sopportare tutti gli assalti dei persecutori, anzi con mitissima dolcezza ha tollerato, obbedendo al Padre, le crudeltà di quei feroci, quanto più è necessario che noi siamo umili! Quanto è opportuno che siamo pazienti… Per questo, dilettissimi, tutta la sapienza cristiana non consiste nell’abilità oratoria o nell’arte di disputare, ovvero nel desiderio della lode e della gloria, ma nella vera e volontaria umiltà, che Gesù Cristo, Signore, con ogni fortezza ha eletto e insegnato dal seno della madre fino al supplizio della croce. E quando i suoi discepoli, come narra l’evangelista, gli domandarono: “Chi è più grande nel regno dei cieli? Allora, chiamato a sé un bambino, lo pose in mezzo a loro e disse: In verità vi dico: se voi non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli. Perciò chiunque diventerà piccolo come questo fanciullo, egli sarà il più grande nel regno dei cieli” (Mt 18,1-4; cf. Lc 9, 46-48). Cristo ama l’infanzia che per prima ha vissuto con l’anima e con il corpo. Cristo ama l’infanzia, maestra di umiltà, specchio di innocenza, esempio di mansuetudine. Cristo ama l’infanzia: ad essa orienta i costumi dei grandi, ad essa richiama l’età dei vecchi e inchina verso di essa, come verso un modello, quelli che innalza al regno dell’eternità… Dunque, non dobbiamo tornare ai giochi dell’infanzia, né alle imperfezioni di nostri anni puerili, ma bisogna ricavare da essi qualcosa che conviene all’età avanzata: cioè che le agitazioni si acquietino velocemente e presto ritorni la pace; non vi sia alcun ricordo dell’offesa, nessuna brama della dignità; ci sia l’amore per la comune fraternità e per la naturale uguaglianza… il mistero dell’odierna festività (dell’Epifania) vi incita, dilettissimi, a questa somiglianza con i piccoli; il bambino Salvatore, adorato dai Magi, vi suggerisce questo esempio di umiltà… Si ami, dunque, l’umiltà; e la superbia si giudichi dai fedeli come il sommo dei mali .
b) Il vissuto cristiano del Natale nella teologia contemporanea. Dio facendosi carne per noi sceglie di essere come noi e uno di noi. Di stare definitivamente e senza pentimento dalla nostra parte. Il Dio forte si fa bambino, sceglie la debolezza non solo per motivi pedagogici – l’uomo, non più pauroso, può avvicinarsi a Dio – ma anche e soprattutto per una ragione di “aggancio salvifico”: grazie alla sua debolezza “tocca” la nostra debolezza (fisica e morale).
Le due debolezze (quella dell’uomo e quella del divino neonato) si intersecano. La sua debolezza guarisce la nostra. La nostra debolezza può diventare occasione di apertura a lui, di incontro con lui e con gli altri. La “spina nella carne”, la ferita (anche morale) può diventare una fessura attraverso la quale la tenerezza di Dio può lambirci: “Dio sceglie la debolezza, si fa uomo per stare vicino agli uomini, si incarna per divenire il prossimo di colui che sbaglia, di colei che si perde. Si abbassa perché ogni essere trovi il coraggio per accostarlo, perché le persone non abbiano più paura di rivolgersi a lui, come questo lebbroso [Mt 8,2-3]. Gesù è venuto per questo, per costoro, perché gli zoppi danzino, i ciechi vedano e i prigionieri recuperino la libertà” .
Ecco perché quando siamo deboli siamo forti, perché la nostra debolezza, il nostro fallire reiterato e riconosciuto può diventare una porta attraverso la quale fare entrare Gesù: “Il prigioniero non esce dal carcere, tuttavia sulla parete della sua cella c’è una finestra aperta sul mondo “altro” in cui si spera un giorno di poter andare. La sfida della fede non sta tanto nell’avere grandi speranze, quanto nel convivere con le grandi delusioni figlie di quelle speranze: convivere e non già sopravvivere a esse. Il passaggio è ancora più esigente: quelle delusioni vanno rese momenti qualificanti della fede” .
L’incarnazione non è solo il mistero del Dio forte che si fa debole per toccarci ed entrare in comunione con e in noi grazie alla nostra debolezza, ma è anche espressione del “materialismo” del cristianesimo, ossia della valorizzazione massima (purtroppo più volte misconosciuta e smentita nella storia del cristianesimo) della “carne” umana, della corporeità: “Se Dio ha scelto di incarnarsi, questo significa che la nostra carne non è né miserabile né degna di disprezzo… Tre assunti del cristianesimo, tanto importanti quanto folli, riguardano la carne: l’incarnazione di Dio, la resurrezione della carne e l’eucaristia. Si può credere proprio perché inconcepibile! Ne dovrebbe derivare, da parte dei cristiani, un’infinita sollecitudine per la carne” .
Ecco cos’è il mistero di cui facciamo memoriale il 25 dicembre di ogni anno: “Natale è l’incontro della carne di Dio con quella dell’uomo e il loro ritrovarsi unite… Quando Dio si incarna, quando assume la carne, occupa tutto e non ci sono delle porzioni del corpo più vili. Dio abita la nostra carne nella sua interezza, è presente specialmente in quello che facciamo più fatica a vivere” .
d. Emanuele Massimo Musso